Una raffica di tic-tic-tic riempie la stanza.
Le dita rabbiose premono veloci senza sosta i tasti della macchina da scrivere.
La carta frusciante scivola dentro e poi fuori, accompagnata a intervalli regolari dal din che invita a riportare il carrello al punto di partenza.
I fogli vengono tatuati con lettere e parole. Lettera dopo lettera si compongono frasi lunghe e frasi corte, arricchite ed enfatizzate da punti, virgole, doppi punti, punti esclamativi ed interrogativi, o puntini che danzano in gruppi di tre; come un insieme di tessere di mosaico man mano riempiono pagine su pagine. Fogli che una volta estratti vengono impilati silenziosi gli uni sugli altri.
Poi le lettere si incrociano e fermano con un rumore sordo e rollato il ritmo sfrenato delle parole.
Un’imprecazione, solo pensata.
E il silenzio viene nuovamente riempito dal ticchettio ritmato e veloce. Il foglio ricomincia a ruotare, danzante nella sua musicalità linguistica, per fermarsi all’arrivo dell’ultimo punto uguale a centinaia di migliaia già tatuati su pagine fitte di parole e segni, ma che tra tutti è il più importante.
Le dita si fermano, e con esse anche la macchina da scrivere, poi, incerte, voltano le pagine accumulate. Gli occhi scorrono le pagine parlanti, le labbra sussurrano parole, il corpo, che prima aveva vibrato emozionato e invitato le dita a esprimere la propria emozione, assimila le frasi e le giudica. E quelle parole non sembrano più le sue, ma corpi estranei, privi di enfasi e di quelle emozioni che poco prima aveva regalato al ticchettio della macchina da scrivere.
Con rassegnazione le mani, le cui dita sono ancora sensibili per il lungo ticchettare, accartocciano nervose i fogli indegni e li gettano frettolosamente nel cestino.
E la danza ritmata riprende.
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