domenica 23 dicembre 2018

Dottor ghiaccio

Entrando in casa, M. accese solo la piccola abatjour posata sulla madia d’ingresso, accanto al portaoggetti di cristallo, che usava per riporre le chiavi. Si tolse le scarpe e la giacca che ripose con cura nell’apposito armadio. Poi, con passo leggero, andò a stendersi sul divano bianco che faceva bella mostra di sé al centro dell’openspace.
Il bello del suo appartamento era il completo silenzio che vi regnava.
Era esausto.
E triste.
Quel giorno era morto un suo paziente. Non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo.
In ospedale lo chiamavano il Dottor ghiaccio per la sua capacità di rimanere impassibile davanti alla sofferenza dei suoi pazienti e a quella dei loro familiari, sia quando annunciava la fatale diagnosi, sia durante le lunghe e penose terapie, sia quando infine il paziente non ce la faceva e gli toccava comunicarlo ai parenti.
La sua era solo una maschera che aveva indossato sin dal primo giorno. Un medico non poteva certo piangere assieme ai suoi pazienti. Doveva essere invece un punto saldo, una figura solida a cui far riferimento.
Questo era quello che mostrava, ma dentro di sé gli sembrava di avere un leone arrabbiato che voleva uscire e gli lacerava il petto.
Era dicembre. Il mese più difficile in assoluto. Per chiunque. Era il mese della famiglia e degli affetti, ma anche il mese della malinconia. Il mese dove l’assenza delle persone care perse, anche da tempo, riprendeva piede negli animi, squagliando i cuori.
Annunciare ai famigliari che la battaglia intrapresa dall’amato congiunto non era servita a niente era sempre una prova difficile, ma proprio a ridosso del Natale lo era ancora di più, quasi che il dolore dei parenti si raddoppiasse.
Lo sapeva bene lui, che aveva visto impotente morire sua madre proprio il giorno di Natale.
Era ancora piccolo, ma quel giorno cambiò drasticamente la sua vita. Non aveva potuto aiutare la persona alla quale aveva voluto più bene al mondo e aveva deciso che la sua vita l’avrebbe spesa per evitare ad altri di soffrire come aveva sofferto lui.
Si era buttato a capofitto nello studio e si era iscritto a medicina, per poi specializzandosi in oncologia.
Dopo che anche suo padre se ne fu andato, non aveva coltivato altri affetti se non la passione per il suo lavoro. Aveva fatto importanti scoperte e aiutato tanti pazienti, che solo fino a qualche anno prima non avrebbero avuto alcuna speranza, ma purtroppo non riusciva a salvarli tutti.
Erano sempre troppi quelli che non ce la facevano.
Quando però i suoi pazienti guarivano e lo guardavano con occhi rinati e speranzosi, si dimenticava di tutto e sapeva che il paziente di lì a poco avrebbe festeggiato con amici e famigliari quella seconda possibilità.

Si era quasi assopito, quando suonarono al campanello.
Chi poteva essere? Non riceveva ospiti da una vita.
Si ricompose e asciugandosi le guance dalle silenziose lacrime, quasi del tutto seccate, aprì la porta del suo appartamento, senza nemmeno chiedere prima chi fosse.
Davanti si presentò un omino timido, che con reverenziale rispetto si tolse il cappello di feltro, mostrando una testa quasi del tutto calva.
Era un volto noto, ma che M. non riusciva a mettere a fuoco.
«Buona sera dottore.» Disse l’uomo, visibilmente imbarazzato, con un filo di voce. «Ecco, niente, spero solo di non averla disturbata. Solo, che, ecco, non l’avevamo ringraziata per aver salvato la vita a nostra figlia e…».
Ecco chi era il signore davanti all’ingresso di casa sua: il signor R. Lo aveva visto tante volte negli ultimi mesi accompagnare la figlia per una leucemia, che sembrava del tutto regredita.
«Ma guardi, che mi ha ringraziato.» Rispose, quasi più imbarazzato del suo interlocutore, ma ritrovando la sua voce ferma e impostata da Dottor ghiaccio. «E poi mi basta sapere di aver aiutato a guarire il mio paziente.»
Il signor R. gli fece un ampio sorriso.
«Be’ ecco, non so come dirglielo, ma siccome abbiamo saputo dall’infermiera che lei è tutto solo, ecco, saremmo felicissimi di averla a cena stasera con noi per il Veglione, perché non lo avremmo festeggiato se non fosse stato per lei!»
M. rimase senza parole. Doveva indagare subito chi era l’infermiera che si permetteva di parlare della sua vita privata con i pazienti e le avrebbe fatto una bella lavata di capo, di quelle che non si scordano.
«La prego, non si faccia implorare. Davvero, un uomo come lei non dovrebbe passare la Vigilia da solo. Noi non abbiamo altro modo di ringraziarla. Siamo gente semplice. Ma vedrà, passerà una bella serata in compagnia di amici e, chissà, magari le toglieremo un po’ di malinconia.»
M. guardò l’uomo chiedendosi come facesse a sapere del cratere vuoto che gli ammorbava il cuore, ma quando questi con un sorrisetto ammaliante gli fece l’occhiolino, si ricordò che il suo vuoto era molto simile ad ogni altro cuore che si sentiva solo. Non c’era nessuna magia nelle parole del signor R., solo una logica deduzione.
Eppure una magia c’era stata, perché M. accettò l’invito e passò una Vigilia in famiglia, ridendo e sentendosi riempire dentro.
E… forse l’infermiera pettegola si meritava un cestino al posto di una lavata di capo.