Esito.
Quella casa mi fa lo stesso effetto di vent’anni fa. Non
so perché, ma mi ha sempre inquietata, sin da bambina. Un senso di pericolo mi
attanagliava alla sola vista, senza riuscire a spiegarne il motivo. Al rientro
da scuola, il passaggio era obbligato, ma non appena la intravvedevo, cambiavo
marciapiede, per starle il più lontano possibile.
Dopo decenni di abbandono, Giada ha avuto l’opportunità
di acquistarla per un importo irrisorio, facendo un vero affare. Qualche mese
di ristrutturazione e ora, anche se i lavori non sono del tutto completati,
l’immobile è abitabile e l’aspetto decadente è ormai un ricordo. Eppure, la sua
sola vista mi inquieta e il mio malessere davanti a questo edificio è più vivo
che mai.
Non ho mai detto a nessuno dell’agitazione che quella
casa mi provoca, nemmeno a Giada quando l’ha comprata. Ho solo provato a
dissuaderla un pochino, facendo leva sui numerosi lavori di ristrutturazione
che avrebbe dovuto affrontare. Ma davanti al suo entusiasmo e all’importo
irrisorio che le avevano chiesto, non avevo più avuto argomentazioni. C’era
solo la mia ingiustificata angoscia.
Davanti al suo invito, mi sono fatta coraggio. È da
troppo tempo che non ci vediamo e le ho promesso di andare a trovarla nella sua
nuova casa. Ora però, che sono qui in strada davanti ai tre gradini d’accesso
che mi dividono dal portone, mi manca il respiro e ho solo voglia di scappare a
gambe levate.
Gli scalini davanti al mio sguardo sembrano allungarsi e
farsi enormi, oltre il normale passo di una persona adulta, quasi fossi
d’improvviso piccola come un’abitante di Lilliput. Provo ad alzare il piede destro verso il
primo livello, ma ho i muscoli bloccati, come se i miei piedi fossero stati
cementati a terra.
Sono solo tre gradini.
Mi faccio forza e con grande fatica arrivo alla soglia
d’ingresso. Mi sembra di averci messo un’eternità per arrivare fino a lì.
L’inquietudine che mi pervade si fa sempre più forte. Il cuore mi martella in
petto, ho le mani sudate e il fiato corto. Allungo una mano tremante verso il
campanello.
Il sole pomeridiano ha lasciato il posto a nuvole cupe
cariche di pioggia, rendendo quel pomeriggio, fino a poco prima raggiante,
novembrino, anche se sono solo i primi giorni di settembre. Il vento si alza
forte, scapigliandomi e sollevando polvere e foglie secche. Ritraggo la mano e
mi stringo i lembi del golfino attorno ai fianchi, incrociando le braccia sul
petto, rabbrividendo.
Alle mie spalle un cigolio, come di una vecchia carriola
spinta a fatica da una persona anziana. Mi volto. Nessuno. La strada è deserta.
Qualcuno bussa al portone dall’interno. Mi rigiro verso
la casa.
È cambiata.
Appare come il vecchio edificio malandato che era prima
della ristrutturazione. Sento un urlo soffocato, come di una persona che prova
a gridare, mentre viene strangolata.
Giada, urlo. Ma anche la mia voce è strozzata.
Sento assalirmi un’angoscia opprimente.
Mi ritraggo e metto il piede in fallo. Ruzzolo giù dai
gradini.
Con occhi spalancati e fissi su quell’orrendo edificio mi
rialzo, incurante del dolore al ginocchio. Poi, di scatto, mi volto a destra e
comincio a correre veloce, più lontano possibile da quell’edificio maledetto.
Non penso più a nulla, solo a salvarmi da quella casa dannata.
E quando sono abbastanza lontana, mi fermo senza fiato.
Respirando a grandi boccate d’aria un pensiero corre alla mia mia amica, in
pericolo dentro casa sua.
Con mani tremanti frugo nella tasca per prendere il
cellulare; con grande fatica riesco a estrarlo, ma mi cade per terra. Mi abbasso per raccoglierlo, mentre passa una
macchina.
La riconosco: è quella di Giada. E infatti alla guida c’è
la mia amica sorridente.
Sorridente?
Sul volto della mia amica, mentre mi sorpassa lentamente,
c’è un ghigno terrificante.