mercoledì 29 marzo 2017

La segretaria del capo

Quanto odiava quella donna. Miss-perfettina-so-tutto-io.
Ma si sarebbe vendicato. Eccome!
Aveva studiato un piano perfetto e le avrebbe fatto vedere di che cos’era capace.
Ormai ci meditava da mesi.
Non la sopportava più. La sua vista al mattina gli rivoltava lo stomaco. Quando usciva dall’ascensore era lì seduta alla sua scrivania, che lo osservava, anzi gli faceva la radiografia, e poi, mentre lui timbrava il cartellino, lei guardava l’orologio. Ma chi si credeva di essere? Insomma, se al Capo non importava se arrivava cinque minuti in ritardo o se si assentava durante l’orario di lavoro, non doveva interessare men che meno a lei. Era solo la segretaria del Capo. Ma si credeva il supervisore di tutto l’ufficio, solo perché aveva la scrivania nel corridoio, proprio di fronte all’ascensore.
All’inizio, appena assunto, due anni prima, quasi l’ammirava. Sempre impeccabile, bellissima ed elegante, molto educata e non alzava mai la voce. Ma presto aveva capito che lo teneva d’occhio. Si segnava ogni suo spostamento, ogni suo ritardo, ogni suo comportamento “non consono all’ufficio” secondo il suo personale giudizio. Sempre lì a giudicarlo. E se il Capo non si accorgeva da solo dei suoi comportamenti “scorretti”, sempre ad insindacabile giudizio della segretaria, o semplicemente non ci dava peso, lei gli presentava il suo resoconto e lo sibilava finché non prendeva un qualche provvedimento. Il Capo stravedeva per lei e quindi si sentiva in dovere di ascoltarla.
Non la sopportava.
Era andato via di casa perché non sopportava più sua madre, che voleva sapere continuamente dove era, cosa faceva, con chi era. Non accettava di rendere conto ad un’estranea. Non lo permetteva a sua madre, figuriamoci alla fighetta dell’ufficio.
Ma quella sera, finalmente, avrebbe avuto la sua rivincita.
Dopo mesi che meditava un piano, infine era giunta l’occasione perfetta.
La saccente si sarebbe fermata in ufficio fino a tardi per preparare gli inviti per la festa che avrebbe dato il Capo il mese seguente. Era un lavoro che il Capo affidava ogni volta solo ed esclusivamente alla sua preferita e che lei svolgeva la sera, dopo il normale orario di lavoro.
Il suo piano era perfetto.
Quella sera era uscito timbrando il cartellino un minuto prima della fine della giornata lavorativa. Sapeva che lei lo avrebbe annotato. Si era poi fermato nel locale sotto l’ufficio a farsi due birre con i colleghi e si era fatto vedere mentre prendeva la macchina e si allontanava. Appena fuori dal campo visivo, si era fermato e aveva nascosto la macchina in un luogo poco frequentato. Si era cambiato gli abiti dell’ufficio, indossando jeans, felpa grigia e berretto con visiera, che aveva messo nel bagagliaio la mattina. Era ritornato verso l’ufficio a piedi ed era salito al quinto piano per le scale d’emergenza.
Lei era lì. Rigida e bellissima nei suoi vestiti all’ultima moda. Lo urtava anche quel suo aspetto: sempre alla moda, ogni giorno vestiva abiti nuovi e tutto le calza a perfezione. Le sue colleghe si sentivano a disagio accanto a lei. Ma in fondo era solo una segretaria. Ci avrebbe pensato lui a ridimensionarla.
Si infilò un paio di guanti in lattice, di quelli che sua madre usava quando puliva il pesce. Si presentò davanti alla giovane donna, che, solo un po’ sorpresa, gli chiese cosa facesse lì.
E’  insopportabile, pensò. Qualsiasi altra persona al posto suo, vedendolo lì con i guanti da chirurgo, si sarebbe spaventata, ma lei non fece una piega. Possibile che non temesse per la sua incolumità? Possibile che si credesse così al di sopra di tutto e tutti?
«Hai finito di controllarmi!» Le urlò contro, afferrando il tagliacarte che aveva sulla scrivania e piantandoglielo dritto nel cuore.
Finalmente il terrore era comparso su quel volto misto a sorpresa. Un rivolo di sangue le uscì dalla ferita, mentre lei si portava le mani al tagliacarte. Un altro rivolo di sangue cominciò a scenderle dal lato destro della bocca aperta.
La guardò mentre annaspava e cercava invano di levarsi il tagliacarte dal corpo. Ormai non aveva più forza. Aspettò finché non fosse sicuro che fosse morta. Continuando a guardarla, fece alcuni passi indietro e, cercando il pulsante a tastoni, chiamò l’ascensore.
L’avrebbe trovata la donna delle pulizie e nessuno avrebbe sospettato di lui. Il suo piano era perfetto. Tutti l’avevano visto andarsene e non aveva lasciato impronte di nessun tipo. Appena a casa avrebbe bruciato nella caldaia dell’impianto di riscaldamento i vestiti che aveva indosso, comprese le scarpe. Erano indumenti acquistati per l’occasione, completamente diversi da quelli portava solitamente. Se anche qualcuno lo avesse visto avvicinarsi all’ufficio, non lo avrebbero riconosciuto.
Quando entrò nell’ascensore si sentì come liberato da un peso. Giustizia era fatta. Ora nessuno poteva controllarlo e giudicarlo.
Schiacciò il pulsante per il piano terra e si girò verso lo specchio che si trovava di fronte alle porte. Voleva osservare il suo viso per vedere se tradiva qualche emozione. Improvvisamente si bloccò, sentendosi ghiacciare il sangue nelle vene. Sullo specchio era attaccato un avviso:

ASCENSORE GUASTO
PER EVITARE DI RIMANERE BLOCCATI
USARE LE SCALE

Quando era uscito dall’ufficio non c’era quell’avviso… Dovevano averlo messo dopo.
Aveva appena letto quelle poche parole che l’ascensore sobbalzò e si bloccò. Partì la telefonata di emergenza. Cercò di aprire le porte, facendo forza con la punta delle dita nella fessura di congiunzione delle due ante, ma inutilmente.
Allora si rese conto di essere in trappola. Non aveva via di scampo. Il suo piano perfetto aveva avuto un intoppo imprevisto.
Ancora una volta aveva vinto lei.

venerdì 24 marzo 2017

Passione o professione?

Ho sempre pensato che con più tempo a disposizione sarei riuscita a scrivere di più. Sono molto riflessiva e ciò mi porta ad essere anche molto lenta in questo processo, per cui un lavoro a tempo pieno, due bambine piccole, la casa da pulire, ecc. non possono che essere un ostacolo alla produzione letteraria.
Eppure devo ricredermi. Da un mese sono a casa (non sto qui a spiegarvene le motivazioni, ma tranquilli: sto bene e non ho perso il lavoro), ma la mia produzione di parole non è aumentata di molto (ok, ho finito la stesura del mio terzo romanzo, ma era da un bel po' di tempo che ci lavoravo su). Non lo so se è perché mi ci sono voluti quindici giorni per rilassarmi (avevo accumulato davvero molto stress) e poi altrettanti per recuperare l'arretrato delle pulizie domestiche, ma non credo. Probabilmente mi manca la disciplina. Amo scrivere e appena posso lo faccio, ma non con regolarità e forse un po' troppo come se fosse un hobby da fare nei ritagli di tempo. Mi rendo conto perfettamente che, per diventare una scrittrice professionista, devo abbandonare questo atteggiamento di attività da tempo libero e diventare, appunto, più professionale, individuando nella giornata uno spazio ben preciso da dedicare solo ed esclusivamente alla scrittura. E questo lo posso fare lavorando ogni giorno o rimanendo a casa a fare la casalinga (disperata).
Mi sto chiedendo se il fatto di non voler individuare un orario di lavoro preciso, non sia in fondo un modo per allontanarmi proprio dal concetto di "lavoro". Scrivere è una passione, un desiderio che nasce dal profondo e anche un modo di evade dal quotidiano. Ho paura che fissare dei paletti, come individuare l'orario di produzione, stabilire delle giornate fisse per mettermi alla tastiera cascasse il mondo, mi toglierebbe un po' del piacere che provo a inventare storie e produrre parole sul foglio (cartaceo o virtuale che sia, non fa alcuna differenza).

Ora lascio lo spazio a voi: come vi rapportate alla passione della scrittura, come un hobby o come una professione?