Quando
mi è stata proposta la gestione del rifugio non ho esitato minimamente e ho
risposto subito di sì. Il modo migliore di conciliare lavoro e passione per la
montagna. È stato quasi un sogno. Poter vivere tanti mesi in quota, avere la
possibilità di arrampicarmi quasi ogni giorno e godere di un panorama
mozzafiato che spazia dalla vetta fino giù a valle, respirare aria fresca e
pulita e immergermi nei suoni della natura, che negli anni ho imparato a
riconoscere: dal fischio della marmotta al bramito del cervo, fino a
distinguere la specie degli uccelli dal loro cinguettio. Sono nata in un
piccolo paesino montano e sono cresciuta imparando a conoscere e apprezzare le
bellezze di boschi, monti e corsi d’acqua, ma anche a capire quali sono i
pericoli insiti in questo ambiente ancora inviolato. Perché la montagna è
affascinante, ma se non la conosci è anche molto pericolosa.
Il
rifugio è raggiungibile sia a piedi sia con un fuoristrada. A piedi ci sono due
sentieri, uno adatto per i camminatori meno esperti, più lento e meno ripido,
mentre l’altro è più ripido, ma ti permette una più veloce salita. E poi dal
rifugio ci sono diverse escursioni per ogni livello di preparazione.
In
questa avventura mi hanno seguito mia mamma e mia sorella: un rifugio tutto al
femminile!
Come
me, entrambe amanti della montagna, mia mamma si è subito occupata della cucina
e con i suoi piatti tipici e le sue torte per viziare gli avventori.
Devo
dire che il lavoro è molto gratificante e mi sta dando delle vere
soddisfazioni. Ci sono giornate in cui si corre dalla mattina alla sera perché
il rifugio è pieno, sia durante la giornata con gli escursionisti di passaggio,
sia la sera quando le camere sono tutte occupate. Ci sono, invece, giornate in
cui non vedi nessuno e mi posso dedicare a me stessa e alle mie passioni, dalle
arrampicate in quota fino alla semplice osservazione della fauna e della flora.
Forse le giornate peggiori sono quelle quando piove: non puoi uscire e nessuno anima
viva; a volte siamo fortunati quando alcuni clienti, ignari o temerari delle
previsioni atmosferiche, si fanno sorprendere dal brutto tempo e rimangono in
rifugio, e così ci facciamo compagnia a vicenda.
Una
cosa, in particolare, mi ha sorpreso in questo lavoro: l’abbigliamento degli
escursionisti. Scioccamente, davo per scontato che i frequentatori della montagna
adottassero un abbigliamento consono, non dico attrezzato come un arrampicatore
professionista, ma almeno un vestiario comodo e, soprattutto, delle scarpe
adatte, magari anche solo un paio di scarpe da ginnastica gli escursionisti,
molto valide per i meno esperti che camminano nei sentieri turistici. E invece
in rifugio, complice la possibilità di salire anche in fuoristrada, sono
arrivati tacchetti, sandali, minigonne e fintanto infradito.
Per
me, che ho imparato a conoscere i pericoli della montagna fin da piccola, è
fondamentale la sicurezza e sono stata ben felice di partecipare ai corsi di
primo soccorso e di guida alpina necessari per avviare l’attività, per cui non
posso fare a meno di rimarcare la clientela quando proprio sta esagerando: è
solo una questione di buon senso, che sembra mancare.
«Non
avrà mica intenzione di andare per sentieri con quelle zeppe?» Ho chiesto una
volta ad una signora seduta al tavolone di legno fuori dal rifugio. La donna, dopo
avermi fulminata con lo sguardo, mi ha risposto: «Indosso SOLO scarpe con
tacco. E poi queste sono più comode di un paio di pantofole!» E poi si è
voltata verso il marito in uno scatto di stizza. Probabilmente erano solo snob
di città che raggiungevano la quota con il loro SUV ultimo modello, solo per
vantarsi poi con gli amici, ignorando completamente che questo non è vivere la
montagna. Fatto sta che passata poco più di un’ora, ritornò in rifugio il
marito pallido come un lenzuolo candeggiato e agitato come una pallina da
flipper. Mi ci vollero alcuni minuti per capire cosa mi stava dicendo: il
cellulare non prendeva e non poteva chiamare i soccorritori, la moglie che
voleva solo raccogliere un bellissimo fiore blu, era caduta, era svenuta, forse
morta, non rispondeva.
Mia
sorella ed io ci precipitammo veloci lungo il sentiero turistico. Mi ero
portata dietro il telefono satellitare, ma prima di chiamare i soccorsi volevo raggiungere
la donna e verificare di persona la situazione. Perché se conoscevo la zona, e
la conoscevo bene, la donna non poteva aver fatto una caduta così rovinosa. Con
il nostro passo allenato, in un quarto d’ora avevamo raggiunto il punto della
caduta, con un marito annaspante alle nostra spalle. Come immaginavo la donna
era scivolata un paio di metri lungo il pendio, dopo aver tentato di
raccogliere una Genziana. Ovviamente un fiore la cui raccolta è proibita,
un’azione che poteva denotare ignoranza delle regole montane o, peggio, sprezzo
per le stesse. Per fortuna un piccolo terrazzamento naturale l’aveva fermata.
Il grosso del danno glielo avevano procurato le zeppe, perché oltre a un paio
di escoriazioni si era slogata in malo modo la caviglia sinistra. Non era
rotta, ma si era già gonfiata molto e le faceva sicuramente molto male.
La
donna era palesemente sotto choc, ma sembrò subito più sollevata quando ci vide.
Mia sorella le offrì una borraccia di acqua fresca e dopo aver sorseggiato,
riprese un po’ di colorito e rispose alle nostre domande, anche se a
monosillabi.
Non
fu difficile recuperarla: non ci fu bisogno di corde, ma bastarono le nostre
gambe allenate ed esperte e due paia di braccia per sollevare e sorreggere
l’infortunata. Avrebbe potuto scendere il marito, senza creare inutili
allarmismi, ma non ne aveva avuto il coraggio. Era proprio per situazioni come questa,
che al corso ci avevano insegnato prima di tutto a raggiungere il posto e
verificare la situazione di persona, per evitare di far partire uomini ed
elicotteri senza una reale emergenza.
Solo
dopo aver trascinato la donna fino al sentiero, il marito si avvicinò e si
offrì di aiutarci a guidare la moglie fino al rifugio.
Al
nostro rientro c’erano ad attenderci clienti curiosi e in pensiero e nostra
madre, che in situazioni come questa si preoccupa, oltre che della salute degli
escursioni, anche per quello che può succedere alla sue figlie. Mia sorella,
scuotendo la testa, riprese la sua postazione in rifugio. Io accompagnai i due
al loro SUV e mi raccomandai all’uomo di raggiungere l’ospedale per fare una
radiografia alla caviglia della donna. Non mi sembrava rotta, ma in fondo mica
sono un medico.
Ecco,
quando vedo in montagna scarpette con la soletta liscia, tacchettini o cose
simili, racconto sempre l’episodio della signora con le zeppe. La quale, tra
l’altro, ritornò in rifugio un paio di settimane dopo per ringraziarci. Con un
sorriso un po’ imbarazzato mi disse: «Ha visto cara? Mi sono comprata il mio
primo paio di scarpe da ginnastica!» e sollevò la gamba per mostrarmi un bel
paio di scarpe nuove di zecca. Decisamente più adatte.