A
un mese dal terremoto che ha colpito il centro Italia penso di poter
interrompere il silenzio che mi ero imposta. Sarebbe stato facile per me che ho
scritto un libro sul terremoto del Friuli del 1976 cavalcare l’onda esprimendo
i miei pensieri e buttando lì un accenno al libro. Ma non mi sembrava corretto.
Non sono uno sciacallo che approfitta della sofferenza altrui per il proprio
tornaconto e per farsi pubblicità come tanti hanno fatto, in diversi modi, i
primi giorni dopo il terremoto. Ho scelto il silenzio per rispetto e così non
ho scritto nulla in merito, né i miei sentimenti né parole di cordoglio che non
sarebbero comunque arrivate agli interessati. Ho postato un solo misero
asettico post su facebook ricordando che da lontano potevamo donare soldi o
beni di prima necessità. Un modo per ricordare che in questi momenti le parole
non valgono nulla e mi sembra ignobile approfittarsene. In momenti come questo
ci si tappa la bocca e ci si rimbocca le maniche: chi ha l’esperienza e la
formazione per farlo si reca sul posto e aiuta fisicamente, gli altri aiutano
da lontano con piccoli gesti non eclatanti ma che possono fare la differenza.
In
questi giorni ho rivisto immagini che mi hanno accompagnato per tutta la mia
vita. Sì, immagini perché io non l’ho vissuto direttamente sulla pelle il
terremoto del Friuli, perché sono nata proprio quell’anno a cose già successe,
ma ho convissuto tra i miei compaesani il cui unico pensiero era riprendersi da
quella tragedia e la loro paura. Paura che mi è stata trasmessa. Sono cresciuta
vedendo persone vivere nei prefabbricati in attesa di ricostruirsi la casa. Ho
visto dalla mia nascita mucchi di detriti e tanti cantieri.
Ecco. Per me queste cose si
affrontano in silenzio, con dignità e rimboccandosi le maniche. È quello
che mi è stato insegnato. E in questo modo affronto la solidarietà.