Quanto odiava quella donna.
Miss-perfettina-so-tutto-io.
Ma si sarebbe vendicato. Eccome!
Aveva studiato un piano perfetto e
le avrebbe fatto vedere di che cos’era capace.
Ormai ci meditava da mesi.
Non la sopportava più. La sua vista
al mattina gli rivoltava lo stomaco. Quando usciva dall’ascensore era lì seduta
alla sua scrivania, che lo osservava, anzi gli faceva la radiografia, e poi,
mentre lui timbrava il cartellino, lei guardava l’orologio. Ma chi si credeva
di essere? Insomma, se al Capo non importava se arrivava cinque minuti in
ritardo o se si assentava durante l’orario di lavoro, non doveva interessare
men che meno a lei. Era solo la segretaria del Capo. Ma si credeva il
supervisore di tutto l’ufficio, solo perché aveva la scrivania nel corridoio,
proprio di fronte all’ascensore.
All’inizio, appena assunto, due anni
prima, quasi l’ammirava. Sempre impeccabile, bellissima ed elegante, molto
educata e non alzava mai la voce. Ma presto aveva capito che lo teneva
d’occhio. Si segnava ogni suo spostamento, ogni suo ritardo, ogni suo
comportamento “non consono all’ufficio” secondo il suo personale giudizio.
Sempre lì a giudicarlo. E se il Capo non si accorgeva da solo dei suoi
comportamenti “scorretti”, sempre ad insindacabile giudizio della segretaria, o
semplicemente non ci dava peso, lei gli presentava il suo resoconto e lo
sibilava finché non prendeva un qualche provvedimento. Il Capo stravedeva per
lei e quindi si sentiva in dovere di ascoltarla.
Non la sopportava.
Era andato via di casa perché non
sopportava più sua madre, che voleva sapere continuamente dove era, cosa
faceva, con chi era. Non accettava di rendere conto ad un’estranea. Non lo
permetteva a sua madre, figuriamoci alla fighetta dell’ufficio.
Ma quella sera, finalmente, avrebbe
avuto la sua rivincita.
Dopo mesi che meditava un piano,
infine era giunta l’occasione perfetta.
La saccente si sarebbe fermata in
ufficio fino a tardi per preparare gli inviti per la festa che avrebbe dato il
Capo il mese seguente. Era un lavoro che il Capo affidava ogni volta solo ed
esclusivamente alla sua preferita e che lei svolgeva la sera, dopo il normale
orario di lavoro.
Il suo piano era perfetto.
Quella sera era uscito timbrando il
cartellino un minuto prima della fine della giornata lavorativa. Sapeva che lei
lo avrebbe annotato. Si era poi fermato nel locale sotto l’ufficio a farsi due
birre con i colleghi e si era fatto vedere mentre prendeva la macchina e si
allontanava. Appena fuori dal campo visivo, si era fermato e aveva nascosto la
macchina in un luogo poco frequentato. Si era cambiato gli abiti dell’ufficio,
indossando jeans, felpa grigia e berretto con visiera, che aveva messo nel
bagagliaio la mattina. Era ritornato verso l’ufficio a piedi ed era salito al
quinto piano per le scale d’emergenza.
Lei era lì. Rigida e bellissima nei
suoi vestiti all’ultima moda. Lo urtava anche quel suo aspetto: sempre alla
moda, ogni giorno vestiva abiti nuovi e tutto le calza a perfezione. Le sue
colleghe si sentivano a disagio accanto a lei. Ma in fondo era solo una
segretaria. Ci avrebbe pensato lui a ridimensionarla.
Si infilò un paio di guanti in
lattice, di quelli che sua madre usava quando puliva il pesce. Si presentò
davanti alla giovane donna, che, solo un po’ sorpresa, gli chiese cosa facesse
lì.
E’
insopportabile, pensò. Qualsiasi altra persona al posto suo, vedendolo
lì con i guanti da chirurgo, si sarebbe spaventata, ma lei non fece una piega.
Possibile che non temesse per la sua incolumità? Possibile che si credesse così
al di sopra di tutto e tutti?
«Hai finito di controllarmi!» Le
urlò contro, afferrando il tagliacarte che aveva sulla scrivania e
piantandoglielo dritto nel cuore.
Finalmente il terrore era comparso
su quel volto misto a sorpresa. Un rivolo di sangue le uscì dalla ferita,
mentre lei si portava le mani al tagliacarte. Un altro rivolo di sangue
cominciò a scenderle dal lato destro della bocca aperta.
La guardò mentre annaspava e cercava
invano di levarsi il tagliacarte dal corpo. Ormai non aveva più forza. Aspettò finché
non fosse sicuro che fosse morta. Continuando a guardarla, fece alcuni passi
indietro e, cercando il pulsante a tastoni, chiamò l’ascensore.
L’avrebbe trovata la donna delle
pulizie e nessuno avrebbe sospettato di lui. Il suo piano era perfetto. Tutti
l’avevano visto andarsene e non aveva lasciato impronte di nessun tipo. Appena
a casa avrebbe bruciato nella caldaia dell’impianto di riscaldamento i vestiti
che aveva indosso, comprese le scarpe. Erano indumenti acquistati per
l’occasione, completamente diversi da quelli portava solitamente. Se anche
qualcuno lo avesse visto avvicinarsi all’ufficio, non lo avrebbero
riconosciuto.
Quando entrò nell’ascensore si sentì
come liberato da un peso. Giustizia era fatta. Ora nessuno poteva controllarlo
e giudicarlo.
Schiacciò il pulsante per il piano
terra e si girò verso lo specchio che si trovava di fronte alle porte. Voleva
osservare il suo viso per vedere se tradiva qualche emozione. Improvvisamente
si bloccò, sentendosi ghiacciare il sangue nelle vene. Sullo specchio era
attaccato un avviso:
ASCENSORE GUASTO
PER EVITARE DI RIMANERE BLOCCATI
USARE LE SCALE
Quando era uscito dall’ufficio non
c’era quell’avviso… Dovevano averlo messo dopo.
Aveva appena letto quelle poche
parole che l’ascensore sobbalzò e si bloccò. Partì la telefonata di emergenza.
Cercò di aprire le porte, facendo forza con la punta delle dita nella fessura
di congiunzione delle due ante, ma inutilmente.
Allora si rese conto di essere in
trappola. Non aveva via di scampo. Il suo piano perfetto aveva avuto un intoppo
imprevisto.
Ancora una volta aveva vinto lei.